el charco

Quante parole, quante nomenclature per uno stesso scompiglio. A volte mi convinco che la stupidità si chiama triangolo, che 8x8 è la follia o un cane -Julio Cortàzar-

21.5.07

I dervisci rotanti sulla tomba di Mario Bellatin

Dervisci rotanti intorno alla mia tomba


L’oppressione di sapersi perduti in una città fino a un certo punto sconosciuta, credo sia motivo sufficiente per sceglierla come luogo di lavoro. Ciclicamente, cado in preda a intensi attacchi di panico e angoscia immotivata. Sono giunto alla conclusione che questi stati mi sono necessari per poter scrivere. Lunghe notti di insonnia trascorse a immaginare le situazioni più funeste, ore di veglia e di sonno intermittente mentre la vita continua tutt’intorno. Vedermi costretto a cercare la scrivania come unico rifugio capace di attenuare l’angoscia. Camminare per strade anonime brulicanti di persone, prendere la metropolitana senza sapere se funzionino i meccanismi che consentiranno il mio ritorno in superficie. Sapere, nell’istante stesso dell’angoscia, che intorno a me si svolgono centinaia di attività è importante. Mi è difficile considerare Città del Messico come la mia città. Non ci sono cresciuto. Quasi non ne conservo ricordi. L’ho abbandonata quando avevo pochi anni e non ci sono tornato fino a qualche anno fa. Situazione perfetta per sentirmi partecipe, ma non della sua voragine. Per credere di esserne un abitante ma anche un esploratore. Per scoprire giorno dopo giorno una serie di abitudini, di vie sconosciute, per sentire di infrangere una regola comportandomi come un normale cittadino. Una delle caratteristiche di questa città è l’essere strutturata come una serie di entità sovrapposte. Quelle che si chiamano “colonie” non sono in realtà altro che piccoli centri urbani chiusi in se stessi, autosufficienti. Per questo solitamente gli abitanti non si spostano su lunghe distanze. Tutto questo può essere sperimentato in una città come Città del Messico. Non a caso ho scelto di abitare in una piccola casa dei primi del ‘900 situata in una delle zone più centrali. Un angolo di tranquillità dimenticato nel frastuono che si scatena tutt’intorno. Abito in un gruppo di case chiamato El Buen Tono. Qui stiamo, io e la mia angoscia, estranei a molte delle attività che si svolgono intorno. Nessuno deve essere testimone del mio sconforto. Io, da solo, di fronte alle parole che devo creare. Tutto il resto, il traffico umano, la vita culturale, lo percepisco come un vago brusio. Ogni tanto mi capita di incontrare qualche altro scrittore, ci salutiamo cortesemente, poi ciascuno prosegue per la sua strada. Ma questa situazione, stranamente, non fa di me un essere del tutto separato. Organizzo, malgrado il mio isolamento, una scuola per scrittori. Un luogo d’incontro dove una serie di creatori trascorrono qualche ora la settimana insieme a un gruppo di aspiranti scrittori. Questa attività mi consente di rimanere in contatto con uno spazio concreto, specifico. E mi consente di mettere da parte l’angoscia e la depressione per affrontare tutte le domande che sorgono dalla creazione letteraria. Mi lascio coinvolgere, evitando che il mio lavoro personale ne sia toccato. E neppure il mio stato d’animo. E neppure l’ansia che, a quanto pare, mi permette di creare. Mandare avanti la scuola è una sorta di artificio che mi libera dal senso di colpa dello scrivere. Conosco bene la sensazione, perché mi accompagna fin da quando ero molto giovane. In qualche modo il senso di colpa si dissipa quando commento con un gruppo di scrittori le loro nuove creazioni o quando devo invitare un maestro e discutere con lui le regole del gioco che reggono la scuola. Ma in realtà riesco a sostenere l’intera situazione grazie alla presenza di una serie di amici. È una città così sproporzionata da permettere l’esistenza di molte reti di amicizie di diversa indole. A ciascuna sono legato da vincoli di natura particolare, e ciascuna mi costituisce in quanto persona. Ho i miei compagni sufi, con i quali condivido un cammino spirituale, i miei amici intellettuali, che alimentano le mie ansie di cultura, e altri amici che non possono essere definiti in base a nessuna caratteristica in particolare, con i quali mi muovo nel tempo e nello spazio. A tutti loro sono unito da legami affettivi che, cosa curiosa, quasi mai si intrecciano fra loro. Lo spazio urbano di realtà sovrapposte lo permette con naturalezza. Non credo esista un’altra città che lo permetta in modo così netto. Che offra la possibilità di percorrere una serie di sentieri paralleli senza che questi debbano mai incrociarsi. Questa situazione mi consente, per di più, di conservare intatto il mio spazio di creazione, senza grandi interferenze. Il fenomeno stesso della sovrappopolazione genera di per sé molte opportunità di solitudine che si presentano simultaneamente e separatamente. Malgrado il suo disordine e la sua sproporzione, Città del Messico è il luogo dove sono riuscito ha trovare il silenzio più grande, quello che si ingigantisce grazie alla consapevolezza che la pace può essere infranta in ogni momento per lasciare spazio all’immersione in una dinamica di moltitudini. Grazie alla possibilità di passare da un estremo all’altro. Riguardo ai libri, questa mia sensazione di essere in compagnia nel silenzio fa sì che la mia scrittura si interroghi sempre più su se stessa. Che i mondi rappresentati nei miei libri obbediscano in misura crescente alle leggi che la scrittura stessa è andata creando nel corso del tempo. Accadono tante cose intorno a me, che i libri si trasformano in una sorta di riflesso di uno spazio che può essere riprodotto unicamente mediante le parole. Per rappresentare una realtà in continuo mutamento mi pare esistano forme di espressione molto più efficaci della scrittura. Credo che queste circostanze consentano di realizzare nel miglior modo la premessa secondo la quale un libro deve esistere perché ciò che esprime non può essere comunicato con altri mezzi. La letteratura come spazio necessario, non come espediente che può essere scelto per rispecchiare una data situazione. A Città del Messico tutto è fatto in modo che vi si possa appartenere e non appartenere nello stesso tempo. Che vi si possa emulare un universo soltanto attraverso le parole. Ho la sensazione che finirò annullato dai miei stessi mondi. Questo accade soprattutto quando l’angoscia tinge ogni cosa intorno a me. Quando i timori si ampliano e quando sento che il mostro che mi circonda è davvero incommensurabile. Allora, mi basta uscire e fare qualche passo per ritrovarmi al mercato sull’angolo di casa mia. O fare qualche passo in più per raggiungere una delle stazioni del metrò più affollate. Constato allora che non vi è possibilità di errore. Che malgrado le tenebre in cui a volte sono immerse le mie parole, nella loro apparente mancanza di senso, la realtà è presente. Lo constato grazie alle centinaia di persone che, sebbene io voglia ignorarlo, mi circondano di continuo. La parola, i testi, non germogliavano nella solitudine più assoluta. Più di una volta mi sono immaginato a scrivere in altre città o in circostanze diverse. Anzi, l’ho fatto. Ricordo la disastrosa esperienza di quando tentai di rinchiudermi in una capanna completamente isolata dal mondo. Non tardò a manifestarsi una serie di sintomi fisici, fra i quali un’asma persistente, che mi costrinse ad abbandonare la capanna insieme a tutti i miei scritti. Non ebbi mai il coraggio di tornarci. Durante la mia esperienza in diverse residenze per scrittori o il mio soggiorno presso una scuola di cinema, il mio principale obiettivo era cercare in ogni modo di raggiungere al più presto una zona urbana dove poter mettere a confronto con la realtà quotidiana i mondi fino a un certo punto insoliti che si riflettono nei miei testi. Così, pur vivendo in una delle società più caotiche, riesco a rendermi conto che il mio lavoro in qualche modo tenta di trovare il punto non evidente che si svela in ogni comportamento umano. Malgrado i disagi di questa città, la sua insicurezza, l’ingannevole amabilità con cui le situazioni solitamente si presentano, la frequente impossibilità di comunicare con gli altri per risolvere i problemi più banali, la mia scelta di lavorare a Città del Messico non è sbagliata. Ho perfino preparato il mio funerale e scelto il luogo dove verrò sepolto. Potrà apparire geograficamente inappropriato, ma intorno al mio corpo gireranno per un’infinità di ore un gran numero di dervisci rotanti, sarò avvolto in un telo di seta verde pieno di fiori e riceverò come addio il canto di esultanza che accompagna le Nozze Mistiche. Tutto questo accadrà nel cuore di Città del Messico, il mio luogo di lavoro, dove non per nulla, fin dalla notte dei tempi, si è fatto della morte un rito di celebrazione.