el charco

Quante parole, quante nomenclature per uno stesso scompiglio. A volte mi convinco che la stupidità si chiama triangolo, che 8x8 è la follia o un cane -Julio Cortàzar-

29.5.07

lettera di Ricardo Blanco a Pepe Carvalho

Riporto una lettera che lo straordinario protagonista di Morte di un violinista ha scritto per ricordare un suo vecchio amico, un maestro, un modello di uomo e detective.


Lettera a Pepe Carvalho

Caro Pepe,
sono due anni che non ci sei piú e ancora non mi sono
ripreso dallo sgomento della tua assenza. Due anni sono un
sospiro o un’eternità, a seconda di chi porti l’orologio. Da
tempo volevo scriverti due righe ma non ce l’ho fatta. Tra i
tanti meritatissimi riconoscimenti e i tanti nomi illustri che
omaggiano il tuo, ho temuto che gli uffici postali potessero
smarrire la mia lettera. Ora, alcuni amici comuni mi danno
la possibilità di fartela arrivare tramite una mano dolce e sicura.
Non immagini neanche la quantità di gente che mi chiede,
per strada, nei bar, ai giardinetti, se sono tuo parente. E
riconosco, caro Pepe, che mi inorgoglisce moltissimo il solo
fatto che lo pensino. Ti confesso che la prima volta ho provato
una scudisciata di vanità per tutto il corpo che mi è
durata per vari capitoli. Di fatto ho cercato di scoprire l’origine
di questo equivoco, cosa avrò mai io per meritarmi la
tua amicizia? E nella distanza che ci separa (non a caso tu
hai vissuto ventidue avventure ed io appena tre, tu parli piú
di venti lingue ed io comincio ora a farfugliare il tedesco e
un po’ di finlandese, che ridicolo, tu ti sei già guadagnato
un posto in Cielo ed io sto ancora cercando il mio posto
sulla terra) ho trovato alcune cose che potrebbero chiarire
la questione.
Per esempio? Per esempio la tavola. Hai visto come man-
giano male i detectives anglosassoni?, per questo hanno
sempre quella faccia di chi sente puzza di merda, quella faccia
da Victor Mature fino al midollo. Certo. Si fermano in
qualunque bettola, tra un crimine e l’altro, per saziare la fame
a colpi di sandwich oleosi e birre calde, se non restano
addirittura in macchina a mandar giú un caffè sudaticcio e
un maledetto donut. Cosí fanno Marlowe, Sam Spade,
Wallander, quel cugino svedese che ci è nato negli ultimi
tempi. Persino Maigret. Santo cielo. E pensare che in Francia
si può mangiare e bere molto bene. Che bisogno c’è di
rovinarsi lo stomaco in quella maniera! Sí, caro Pepe, ci unisce
la tavola. È pur vero che il clima ci separa, ben diverso
è l’inverno di Raval da quello di Vegueta, quello di calle
Santa Amalia da quello di calle Triana, che non è né carne
ne pesce. Ho cambiato i tuoi stufati con delle insalate, le
tue zuppe con il pesce fresco, ma dove ci sono l’olietto d’oliva
e il buon vino… Sai una cosa? Ricordo ancora una tua
frase a questo proposito: «l’importante è mangiare, la digestione
è secondaria».
E cosa mi dici dell’umore? Sicuramente dipende da cosa
mangiamo. Ai parenti del nord gli dà acidità, a noi furberia.
Per questo hanno quegli improvvisi malumori e rigidità, e
per questo credono nella filosofia degli sconfitti. Noi no,
caro Pepe. Noi prendiamo la vita in altro modo. Ci riteniamo
perdenti come loro, mortali come loro, ma sopravviviamo
alla nostra mortalità con grandi dosi di ottimismo. Una
scrollatina di spalle. E un sorriso.
E cos’è che ci imparenta? Forse ha a che vedere con
quanto detto prima, con le lenticchie e l’ironia, con la trippa
e il sarcasmo, abbiamo tutti e due un codice morale e,
anche se non è esclusivo, è come il cortile di casa mia, privato
e asciutto. Il nostro lavoro sta nello scoprire l’assassino,
spiegare le ragioni (quando ci sono) del suo atto, cercare
di capirlo. Che paghi o no per il suo crimine, non ci riguarda.
Noi non siamo dèi. Credo di ricordare che una vol-
ta l’hai spiegato chiaramente: «Io, ovvero, Carvalho, non ho
mai consegnato un criminale alla polizia o alla giustizia. Non
appartiene alla deontologia di un detective privato sanzionare
mediante l’apparato repressivo, anche perché, visto che
stiamo parlando di letteratura, ogni scrittore sa che il vero
assassino del suo romanzo è lui stesso. Lo scrittore è la ragazza
del bar e l’amante della ragazza del bar, il gangster e il
poliziotto, l’omosessuale e il fascista, il marxista e l’eterosessuale,
la vittima e l’assassino». Sia detto una volta per tutte:
una cosa è la legge e un’altra ben diversa è la giustizia.
Ebbene, caro Pepe, voglio concludere con un aneddoto
che, anche se un po’ prosaico, rispecchia perfettamente la
mia ammirazione per te. Tu sei nato in una notte di bisboccia,
da una scommessa per salvare i baffi. Io ho aperto l’agenzia
di investigazione dopo un’altra notte di sbronza, per
chiudere la bocca al mio amico Miguel Moyano. Tutti e
due, insomma, siamo figli del whisky e della luna, che non
è poi una brutta cosa per dei personaggi letterari quali siamo.
O no?
Hasta siempre, amico.
Tuo, Ricardo Blanco

21.5.07

I dervisci rotanti sulla tomba di Mario Bellatin

Dervisci rotanti intorno alla mia tomba


L’oppressione di sapersi perduti in una città fino a un certo punto sconosciuta, credo sia motivo sufficiente per sceglierla come luogo di lavoro. Ciclicamente, cado in preda a intensi attacchi di panico e angoscia immotivata. Sono giunto alla conclusione che questi stati mi sono necessari per poter scrivere. Lunghe notti di insonnia trascorse a immaginare le situazioni più funeste, ore di veglia e di sonno intermittente mentre la vita continua tutt’intorno. Vedermi costretto a cercare la scrivania come unico rifugio capace di attenuare l’angoscia. Camminare per strade anonime brulicanti di persone, prendere la metropolitana senza sapere se funzionino i meccanismi che consentiranno il mio ritorno in superficie. Sapere, nell’istante stesso dell’angoscia, che intorno a me si svolgono centinaia di attività è importante. Mi è difficile considerare Città del Messico come la mia città. Non ci sono cresciuto. Quasi non ne conservo ricordi. L’ho abbandonata quando avevo pochi anni e non ci sono tornato fino a qualche anno fa. Situazione perfetta per sentirmi partecipe, ma non della sua voragine. Per credere di esserne un abitante ma anche un esploratore. Per scoprire giorno dopo giorno una serie di abitudini, di vie sconosciute, per sentire di infrangere una regola comportandomi come un normale cittadino. Una delle caratteristiche di questa città è l’essere strutturata come una serie di entità sovrapposte. Quelle che si chiamano “colonie” non sono in realtà altro che piccoli centri urbani chiusi in se stessi, autosufficienti. Per questo solitamente gli abitanti non si spostano su lunghe distanze. Tutto questo può essere sperimentato in una città come Città del Messico. Non a caso ho scelto di abitare in una piccola casa dei primi del ‘900 situata in una delle zone più centrali. Un angolo di tranquillità dimenticato nel frastuono che si scatena tutt’intorno. Abito in un gruppo di case chiamato El Buen Tono. Qui stiamo, io e la mia angoscia, estranei a molte delle attività che si svolgono intorno. Nessuno deve essere testimone del mio sconforto. Io, da solo, di fronte alle parole che devo creare. Tutto il resto, il traffico umano, la vita culturale, lo percepisco come un vago brusio. Ogni tanto mi capita di incontrare qualche altro scrittore, ci salutiamo cortesemente, poi ciascuno prosegue per la sua strada. Ma questa situazione, stranamente, non fa di me un essere del tutto separato. Organizzo, malgrado il mio isolamento, una scuola per scrittori. Un luogo d’incontro dove una serie di creatori trascorrono qualche ora la settimana insieme a un gruppo di aspiranti scrittori. Questa attività mi consente di rimanere in contatto con uno spazio concreto, specifico. E mi consente di mettere da parte l’angoscia e la depressione per affrontare tutte le domande che sorgono dalla creazione letteraria. Mi lascio coinvolgere, evitando che il mio lavoro personale ne sia toccato. E neppure il mio stato d’animo. E neppure l’ansia che, a quanto pare, mi permette di creare. Mandare avanti la scuola è una sorta di artificio che mi libera dal senso di colpa dello scrivere. Conosco bene la sensazione, perché mi accompagna fin da quando ero molto giovane. In qualche modo il senso di colpa si dissipa quando commento con un gruppo di scrittori le loro nuove creazioni o quando devo invitare un maestro e discutere con lui le regole del gioco che reggono la scuola. Ma in realtà riesco a sostenere l’intera situazione grazie alla presenza di una serie di amici. È una città così sproporzionata da permettere l’esistenza di molte reti di amicizie di diversa indole. A ciascuna sono legato da vincoli di natura particolare, e ciascuna mi costituisce in quanto persona. Ho i miei compagni sufi, con i quali condivido un cammino spirituale, i miei amici intellettuali, che alimentano le mie ansie di cultura, e altri amici che non possono essere definiti in base a nessuna caratteristica in particolare, con i quali mi muovo nel tempo e nello spazio. A tutti loro sono unito da legami affettivi che, cosa curiosa, quasi mai si intrecciano fra loro. Lo spazio urbano di realtà sovrapposte lo permette con naturalezza. Non credo esista un’altra città che lo permetta in modo così netto. Che offra la possibilità di percorrere una serie di sentieri paralleli senza che questi debbano mai incrociarsi. Questa situazione mi consente, per di più, di conservare intatto il mio spazio di creazione, senza grandi interferenze. Il fenomeno stesso della sovrappopolazione genera di per sé molte opportunità di solitudine che si presentano simultaneamente e separatamente. Malgrado il suo disordine e la sua sproporzione, Città del Messico è il luogo dove sono riuscito ha trovare il silenzio più grande, quello che si ingigantisce grazie alla consapevolezza che la pace può essere infranta in ogni momento per lasciare spazio all’immersione in una dinamica di moltitudini. Grazie alla possibilità di passare da un estremo all’altro. Riguardo ai libri, questa mia sensazione di essere in compagnia nel silenzio fa sì che la mia scrittura si interroghi sempre più su se stessa. Che i mondi rappresentati nei miei libri obbediscano in misura crescente alle leggi che la scrittura stessa è andata creando nel corso del tempo. Accadono tante cose intorno a me, che i libri si trasformano in una sorta di riflesso di uno spazio che può essere riprodotto unicamente mediante le parole. Per rappresentare una realtà in continuo mutamento mi pare esistano forme di espressione molto più efficaci della scrittura. Credo che queste circostanze consentano di realizzare nel miglior modo la premessa secondo la quale un libro deve esistere perché ciò che esprime non può essere comunicato con altri mezzi. La letteratura come spazio necessario, non come espediente che può essere scelto per rispecchiare una data situazione. A Città del Messico tutto è fatto in modo che vi si possa appartenere e non appartenere nello stesso tempo. Che vi si possa emulare un universo soltanto attraverso le parole. Ho la sensazione che finirò annullato dai miei stessi mondi. Questo accade soprattutto quando l’angoscia tinge ogni cosa intorno a me. Quando i timori si ampliano e quando sento che il mostro che mi circonda è davvero incommensurabile. Allora, mi basta uscire e fare qualche passo per ritrovarmi al mercato sull’angolo di casa mia. O fare qualche passo in più per raggiungere una delle stazioni del metrò più affollate. Constato allora che non vi è possibilità di errore. Che malgrado le tenebre in cui a volte sono immerse le mie parole, nella loro apparente mancanza di senso, la realtà è presente. Lo constato grazie alle centinaia di persone che, sebbene io voglia ignorarlo, mi circondano di continuo. La parola, i testi, non germogliavano nella solitudine più assoluta. Più di una volta mi sono immaginato a scrivere in altre città o in circostanze diverse. Anzi, l’ho fatto. Ricordo la disastrosa esperienza di quando tentai di rinchiudermi in una capanna completamente isolata dal mondo. Non tardò a manifestarsi una serie di sintomi fisici, fra i quali un’asma persistente, che mi costrinse ad abbandonare la capanna insieme a tutti i miei scritti. Non ebbi mai il coraggio di tornarci. Durante la mia esperienza in diverse residenze per scrittori o il mio soggiorno presso una scuola di cinema, il mio principale obiettivo era cercare in ogni modo di raggiungere al più presto una zona urbana dove poter mettere a confronto con la realtà quotidiana i mondi fino a un certo punto insoliti che si riflettono nei miei testi. Così, pur vivendo in una delle società più caotiche, riesco a rendermi conto che il mio lavoro in qualche modo tenta di trovare il punto non evidente che si svela in ogni comportamento umano. Malgrado i disagi di questa città, la sua insicurezza, l’ingannevole amabilità con cui le situazioni solitamente si presentano, la frequente impossibilità di comunicare con gli altri per risolvere i problemi più banali, la mia scelta di lavorare a Città del Messico non è sbagliata. Ho perfino preparato il mio funerale e scelto il luogo dove verrò sepolto. Potrà apparire geograficamente inappropriato, ma intorno al mio corpo gireranno per un’infinità di ore un gran numero di dervisci rotanti, sarò avvolto in un telo di seta verde pieno di fiori e riceverò come addio il canto di esultanza che accompagna le Nozze Mistiche. Tutto questo accadrà nel cuore di Città del Messico, il mio luogo di lavoro, dove non per nulla, fin dalla notte dei tempi, si è fatto della morte un rito di celebrazione.

8.5.07

Bookever noir in libreria

NERO E AVANA
Antologia di racconti cubani contemporanei
pp. 240, Euro 14

A cura di Giuliana Della Valle
Prologo di Danilo Manera


Dissacranti, eccessivi, questi racconti sono un pugno allo stomaco del lettore.

“Questi racconti ruotano come mulinelli attorno a un baricentro inquietante: un incubo, un suicidio, un’indemoniata, un linciaggio, una sicaria, una lugubre trappola, un gorgo d’odio, una violenza sessuale, uno spettacolo proibito, uno squartatore ucciso da un folle. E nel vortice di caligine si cela il profilo cangiante e incomprensibile, aggressivo e imputridito del male”.
Danilo Manera

Un odore dolce di salnitro e morte percorre le viuzze buie dell’Avana; la rabbia sconnessa degli angeli e dei demoni di Cuba ci conduce alle storie di questi straordinari narratori. Un’orgia di disperazione, sesso, violenza, impotenza, tradimento e sogno, popolata da erotomani, attentatori, puttane, scrittori, frustrati, esuli, travestiti, ladri.





JOSÉ LUIS CORREA
MORTE DI UN VIOLINISTA

pp. 272, Euro 14

Malinconico come Marlowe, astuto e riflessivo come Maigret, Ricardo Blanco è la risposta canaria a Montalbano.

Esotico, impertinente, Ricardo Blanco ricorda un altro grande personaggio, Pepe Carvalho, nato dalla penna di Vásquez Montalbán.

Il primo violino dell’Orchestra filarmonica di New York, in tournée a Las Palmas, viene trovato morto. Ricardo Blanco, figlio del whisky e della luna, detective riciclato, amante del jazz e delle donne, dovrà risolvere un caso che sembra essere un assassinio. I sospetti si concentrano su uno degli elementi nuovi dell’orchestra, la violista canadese, dallo sguardo acquoso, Juliette Legrand, da cui il detective Blanco si sente fortemente attratto. La morte del violinista scuote l’isola dal torpore come una brezza calda di favonio.

José Luis Correa (Las Palmas, 1962) è professore all’Università di Las Palmas di Gran Canaria. Morte di un violinista è il primo romanzo tradotto in Italia dei tre centrati sul personaggio di Ricardo Blanco


4.5.07

Mario Bellatin alla Fiera del Libro di Torino e a Roma

BOOKEVER - EDITORI RIUNITI e L’AMBASCIATA DEL MESSICO

presentano

DAMA CINESE
di
Mario Bellatin

Fiera del Libro di Torino
Sabato 12 maggio ore 20:00
Spazio autori A
Intervengono
L’autore
*
Vittoria Martinetto
Docente di Lingua e Letterature Ispanoamericane all'Università di Torino
*
Maria Nicola
Traduttrice
***

Bookever – Editori Riuniti
vi invita

al Caffè Fandango
martedì 15 maggio
ore 19:30

Rosella Postorino e Mario Bellatin
leggono Dama cinese

Rosella Postorino, autrice de La stanza di sopra edito da Neri Pozza, leggerà insieme a Mario Bellatin alcuni passi di Dama cinese. Happening dell’autore messicano. Introduce la serata Paolo Valentini, editor di Bookever.

Caffè Fandango - Piazza di Pietra 32/33 – 00186 Roma – tel. 06.45472913 – caffefandango@caffefandango.it


IILA- Istituto italo – Latino americano
Bookever – Editori Riuniti e l’Ambasciata del Messico

Presentano


Dama cinese
di
Mario Bellatin

mercoledì 16 maggio
Ore 18
Sala degli specchi
Piazza Benedetto Cairoli 3

Saranno presenti l’autore, Susanna Nanni (Università di Roma Tre) e Paolo Valentini ( editor Bookever)

***

DAMA CINESE


«Non si esce indenni da una lettura simile. O meglio, da questa esperienza»
Le Nouvel Observateur

«Un’arte diabolica della costruzione, un trattamento della lingua elegante e anoressico»
Alan Pauls

Un ginecologo unisce l’impeccabile esercizio della sua professione a regolari visite ai postriboli. Un bambino dalla testa «lievemente anormale» racconta la storia di un’anziana pazza, mentre aspetta la madre in sala d’attesa. Non c’è spazio né tempo, soltanto il vuoto e un presente che inchioda le relazioni tra gli individui. Una storia spietata narrata con scetticismo, dove l’assenza di giudizio mantiene il lettore sul filo, alla ricerca del senso dell’universo, delle paure e delle vicende umane. Con uno stile aspro e minimalista, di una bellezza enigmatica e fredda, Mario Bellatin intriga e sorprende il lettore, senza svelare il mistero che avvolge i suoi personaggi.

Mario Bellatin è nato a Città del Messico nel 1960. Considerato uno degli autori più originali e innovativi degli ultimi anni, è stato tradotto in varie lingue, ottenendo, soprattutto in Francia, un notevole successo di critica e pubblico.

DAMA CINESE, il suo primo romanzo pubblicato in Italia, in Spagna è stato considerato da El Pais uno dei migliori del 2006.

«Bellatin crea una sorta di caos narrativo, nel quale nulla sembra avere senso, neppure l’esasperante freddezza.
Un caos che alla fine si ordina con affascinante precisione»
El Pais